Ma anche quell’obiettivo di quella guerra sciagurata ed ingannatrice sembra essersi tramutato in un altra cocente disillusione degli strateghi neoconservatori, che tra guerre e disastri finanziari hanno trascinato il mondo industrializzato in una delle peggiori crisi che si ricordano.
Oggi il quotidiano russo Izvestia ricorda beffardamente che a tutti allora sembrava più che normale che la caduta di Saddam Hussein e l’arrivo in Iraq di multinazionali come Exxon, Shell e e Bp che si aggiudicavano tutti gli appalti petroliferi avrebbe portato un fiume di petrolio a buon mercato in Occidente: «Dieci anni più tardi, un Paese che non ha mai sognato di partecipare ad una guerra alla fine ha fatto jackpot: la Cina. L’Iraq produce oggi più di 2 milioni di barili di petrolio al giorno, circa la metà dei quali non parte per gli Stati Uniti, ma per la Cina».
In Iraq ci sono le seconde più grosse riserve petrolifere del mondo, circa 143 miliardi di barili. Due compagnie nazionali hanno il monopolio dello sfruttamento dei giacimenti: North Oil Company e South Oil Company, gli stranieri possono acquistare solo una parte delle loro azioni e le esportazioni di idrocarburi rappresentano più del 90% delle entrate del Paese.
Secondo Alexei Maslov, dell’Alto collegio di economia russo, «La Cina negozia da molto tempo con Bagdad, ben prima della guerra in Iraq. Ha fatto numerosi accordi per lo sfruttamento comune del petrolio e delle forniture. Oggi li stanno applicando. Regolare il problema petrolifero è la priorità numero uno della Cina. I cinesi acquistano molto petrolio in Russia e in Asia centrale ma entrare in una situazione di dipendenza. La Cina ha quindi due metodi di lavoro: primo, l’acquisti di giacimenti petroliferi, quella che chiamano la “soluzione centro-asiatica” come in Kazakistan; secondo, la diversificazione massima delle forniture di petrolio. E’ precisamente il caso dell’Iraq».
Già prima della guerra Pechino aveva una potente lobby petrolifera che trattava con la dittatura di Saddam e che poi ha avuto un ruolo importante anche durante l’occupazione americana e con i successivi governi post-Saddam dominati dagli sciiti. Inoltre le compagnie petrolifere cinesi sono statali e questo agli occhi della nuova debole leadership irakena rappresenta una garanzia di stabilità, contrariamente alle multinazionali occidentali viste come potenze straniere che vogliono semplicemente rapinare le risorse del Paese.
Maslov sottolinea che «La Cina è un protagonista petrolifero più affidabile perché il Paese è molto stabile. In più, le quantità fornite possono essere praticamente illimitate, dato che tutte le forniture non coprono nemmeno il 70% dei bisogni».
In altro esperto russo, Boris Dolgov, dell’Istituto degli studi orientali pensa che proprio gli Usa siano responsabili di questa suddivisione delle forniture di petrolio irakeno: «Si può parlare di un fallimento totale della politica americana in Iraq. Gli Stati Uniti si sono inizialmente appoggiati agli sciiti, oppositori di Saddam Hussein. Poi, quando queste forze si sono unite ai loro correligionari dell’Iran ed hanno cominciato ad opporsi agli americani, quest’ultimi hanno dovuto partire».
Insomma, la catastrofica guerra petrolifera dell’Iraq, messa in piedi con il dichiarato intento di esportare la democrazia e realizzare un nuovo ordine mondiale americano fondato sul petrolio irakeno si è presto trasformata nella presa del potere attraverso elezioni degli sciiti filo-iraniani, in un Medio Oriente ancora più instabile e nel petrolio irakeno che prende il largo verso i porti asiatici, a dare linfa alla crescita della nuova potenza globale cinese, il vero avversario dell’ex super-potenza Usa che si credeva di essere diventata l’unica dopo il crollo dell’Urss.
Testo di Umberto Mazzantini
Sito e fonte www.greenreport.it
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